La storia del Computer - 2.a Generazione 1956-1963
       Gli elaboratori elettronici diventano più piccoli e la tecnologia impiegata è sempre più avanzata: il transistor segue l’uomo nello spazio, così come nel mondo del lavoro. E diventa uno strumento a dimensione umana.

Con il Philco 2000, il primo computer a transistor disponibile commercialmente e con l'introduzione del transistor negli elaboratori, avvenne il passaggio dalla prima alla seconda generazione. Il transistor fu scoperto nel 1947 dagli scienziati Walter Brattain, John Bardeen e William Shockley nel Bell Telephone Laboratory di Murray Hill.

Rispetto alla valvola, il transistor comporta minori costi di produzione, occupa pochi millimetri (le valvole hanno dimensioni di centimetri) e ha una velocità di lavoro dieci volte superiore, dell’ordine di pochi decimi di milionesimo di secondo. Inoltre, la vita media di un transistor è di dieci anni di funzionamento (90 mila ore) perché, non producendo calore, lavora "a freddo", mentre le valvole si bruciavano abbastanza frequentemente proprio a causa del calore che emettevano. Il transistor (fig.10) è composto da cristalli di silicio o germanio, la cui conducibilità viene aumentata da atomi di sostanze diverse, come l’arsenico. Il silicio può far passare o no la corrente rappresentando l’"uno" o lo "zero".


fig.10 - Il Transistor.

Mentre veniva impiegato nelle radio, gli scienziati pensavano ad una possibile implementazione del transistor negli elaboratori elettronici. Proposero così di sostituire le 55 mila valvole del sistema di difesa Sage, ma l’aviazione militare aveva già investito grandi risorse nel sistema e non avviò la sostituzione.

Lo sbocco della nuova tecnologia fu quindi commerciale e si giunse ai primi elaboratori commerciali a transistor, come il Philco 2000 della Philco Corporation del 1957 o l’IBM 7070 del 1958, concepito per scopi commerciali e scientifici.


fig.11 - IBM 7070.

La novità rappresentata da quest'ultima macchina era che poteva svolgere più di un’operazione contemporaneamente: in un minuto leggeva 400 schede, ne perforava 250, faceva operazioni matematiche e logiche, scriveva su nastro magnetico e stampava mille righe. Con memorie ausiliarie a dischi magnetici, memorizzava 24 milioni di lettere e cifre, mentre le periferiche a nastro potevano leggere o scrivere 750 mila caratteri al secondo. In una giornata, questo computer elaborava un milione di polizze assicurative, e in un’ora 80 mila fatture.

Progettato per medie e piccole aziende, l’IBM 1401 eseguiva 3 mila operazioni al secondo, mentre in un minuto poteva leggere 800 schede e perforarne 250. La macchina era di dimensioni ridotte, era facile da usare ed il costo era contenuto: vennero installati circa 12 mila esemplari.


fig.12 - IBM 1401.

Nel 1959 anche l’Italia entrò nel mondo del computer, con la produzione in serie dell’Olivetti dell’Elea (Elaboratore Elettronico Aritmetico), per applicazioni scientifiche e commerciali. Nello stesso anno, con Hitachi, Nec e Oki Electric, i calcolatori fanno la loro comparsa anche in Giappone.

Con la seconda generazione, nasce un nuovo tipo di macchina, diversa dalle precedenti: il minicomputer.
Per "mini" non si intende un elaboratore molto piccolo o dalle prestazioni molto ridotte: i primi "mini", se paragonati con i modelli attuali, avevano dimensioni notevoli, ma erano pur sempre più piccoli rispetto ai mainframe, che in quegli anni erano ancora dei veri pesi massimi.

Nel 1960 la Digital Equipment vende a 120 mila dollari il Pdp-1, iniziali di Programmed Data Processor (fig.13). Il computer, del quale vennero costruiti cinquanta esemplari, usava un display grafico che sfruttava un tubo catodico e richiedeva un solo operatore. Tre anni dopo, il suo successore, il Pdp-8, aveva le dimensioni di un frigorifero ed era estremamente limitato rispetto ai grandi computer, ma il costo di 18 mila dollari ne permise un’enorme diffusione in un nuovo mondo di utenti che non avevano bisogno di grande potenza: comincia la storia del mini. Il successo dei Pdp proseguì con la serie VAX del 1978.


fig.13 - PDP-1 della Digital Equipment.

Nel 1957 l’Urss mandò in orbita il primo satellite della storia, lo Sputnik, seguito quattro mesi dopo dall’Explorer americano.
Da questo momento nacque la decisione politica degli Stati Uniti di dedicarsi all’esplorazione del cosmo e si aprì un nuovo periodo particolarmente favorevole allo sviluppo dell’informatica. Su missili e satelliti andavano posizionate strumentazioni piccole e potenti, che fossero in grado di trasmettere ai terminali delle stazioni terrestri i dati raccolti.

Quando, con gli inizi degli anni Sessanta, si avviarono i progetti per alloggiare l’uomo nei veicoli spaziali (progetto Mercury – capsula con un uomo –, Gemini – due astronauti –, Apollo – sbarco sulla Luna –), aumentò esponenzialmente il bisogno di elaborazione e di trattamento di un'enorme mole di dati a grande distanza e in assoluta sicurezza. La Nasa pensò quindi la realizzazione di supercomputer: elaboratori in grado soddisfare i bisogni di calcolo dei grandi centri di ricerca, che troveranno grande sviluppo nel decennio successivo. Il superelaboratore dell'epoca era il CDC 6600 (fig.14). Realizzava 3 milioni di istruzioni al secondo ed era tre volte più veloce rispetto al suo più vicino rivale: l'IMB Stretch. Il 6600 era il computer più veloce del mondo, finché non venne superato nel 1968 dal suo successore, il CDC 7600. Parte della velocità deriva dal design del computer, composto da dieci piccoli computer che fungevano da processori periferici e facevano confluire i dati in una grande unità centrale di elaborazione.


fig.14 - CDC 6600.

Le migliorate prestazioni dei computer della seconda generazione resero possibili nuove applicazioni e diedero un contributo determinante all'astronautica: alla loro introduzione viene collegato l'inizio dell'era spaziale.

La macchina IBM che passò alla storia, perché legata alle successive avventure astronautiche fu "l’elaboratore dell’era spaziale" IBM 7090 (fig.15). Annunciato nel 1959, era composto da 44 mila transistor e faceva 210 mila addizioni al secondo. Era la macchina più potente del mondo e, con un prezzo di due miliardi di lire di allora, anche la più cara.


fig.15 - IBM 7090.

La corsa allo spazio spinse ulteriormente la ricerca per macchine ad alte prestazioni, che, a loro volta, favorirono lo sviluppo di quelle per il mondo aziendale. La seconda generazione portò profondi cambiamenti, negli anni Settanta e Ottanta, nel mondo del lavoro e nei centri di produzione. Alla fine del 1958, gli elaboratori in Italia erano qualche decina, negli Stati Uniti 2500. Nel 1964, gli elaboratori installati nel mondo erano 25 mila, di cui 20 mila negli Stati Uniti, 900 in Italia.

Il computer eliminò tradizionali posti di lavoro, legati alla manualità dell’ufficio e permise la nascita di nuove professioni, altamente specializzate.



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